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A 40 anni dalla prima pubblicazione di Pierfranco Bruni
martedì 22 luglio 2014

Viaggio nell’ultima nobiltà linguistica che resta
di Bonifacio Vincenzi

da contaminazioni@alice.it



 

 

 

Scrive Maurice Blanchot: “Nella parola muore ciò che dà vita alla parola; la parola è la vita di questa morte…”

Gli fa eco Edmond Jabès: “Il silenzio è il legame.”

E nondimeno viviamo questa morte  così estranea al nostro essere vivi qui e adesso con la consapevolezza struggente di un’illusione che non  vogliamo riconoscere. Ne abbiamo fortemente bisogno perché le nostre certezze sostengono poco questo viaggio destinato a rivelare il senso dei nostri tradimenti.

Si diventa poeti per un’esigenza di fedeltà a noi stessi.

La poesia ci accoglie e ci difende dal fuoco di ogni giorno, per usare una appropriata definizione del poeta messicano Octavio Paz.

Ma ciò che la poesia accoglie e difende è comunque lontano da noi, è la vita di una morte che un poeta come Pierfranco Bruni conosce bene perché  la sua poesia molto ha a che fare con la memoria, molto ha a che fare con i ricordi, molto con l’assenza. Siamo a 40 anni dalla prima pubblicazione di Pierfranco Bruni dal titolo “Ritagli di tempo” edita anche allora da Pellegrini.

La parola che si rivolge a noi da questa sua poesia così rarefatta, ci colpisce perché si tuffa continuamente   in nulla di esistenza ; ci colpisce per questo legame  d’essenza e di assenza.

 Ci colpisce per questo suo viaggio sorretto dal calore dello sguardo. Lo sguardo di un Giano, che abbraccia sempre una duplice e cruciale visione. Presente e passato si ritrovano in un solo respiro, muoiono nella parola per richiamare appassionatamente dall’oscurità del perduto non una resurrezione ma, per dirla ancora con Blanchot, questa polvere che impregna ma che non si vede, questi colori che sono tracce e non luce.

Ma se vogliamo prestar fede a Blanchot e cioè che “la parola agisce non come una forza ideale, ma come una potenza oscura, come un incanto che stringe le cose, le rende realmente presenti fuori di sé”, allora dobbiamo concludere che questa stessa parola può fare a meno del poeta  perché “esige di fare il proprio gioco senza colui che gli ha dato la forma.”

E anch’io che in questo momento sto soltanto rendendo noto, in quanto lettore, il mio percorso sempre e comunque devastante nell’opera, non faccio che impossessarmi dei luoghi della poesia. Luoghi evanescenti ma così vicini ai luoghi fisici, così sapientemente predisposti all’accoglienza.

Pierfranco Bruni è ben consapevole di questo e lo dice in Viaggioisola:

 

“Non cercarmi  /tra i rigagnoli del buio/Ho venduto pioggia /ad ogni gesto della mano//Non cercarmi /tra i sogni e le parole/Io /non sarò mai/dove tu /crederai di trovarmi”.

Pierfranco Bruni cerca nella sua poesia un luogo per sé, inaccessibile al lettore, da salvare e che lo salvi.

Il ritmo della sua poesia è di una brevità indefinita. C’è molto bianco intorno. Quasi un respiro di silenzio che è magia di un canto trattenuto altrove.

Il silenzio è il legame.

Ancora con Jabès a ribadire una sua profonda linea di fede.

La parola che si rivolge a noi dalle sue poesie custodisce, dunque, nel silenzio l’anima delle cose, il volto degli assenti.

Volti disseminati/in questo eterno/crepuscolo di piogge… 

Nubi di carta e segni. Frammenti di sogni e di speranza che  si posano, silenziosamente,  sulla pagina bianca. Pieghe di sguardi,  di sorrisi, di giorni. Echi di memorie ed altro ancora in una poesia che vuole  creare magiche atmosfere consone a quel luogo dell’anima del quale parlavamo prima.

Solitudine e silenzio, dunque. Patto d’alleanza, da rompere e rifare, come in un gioco. Perché, leggiamo che dietro ogni silenzio/ c’è una voce.  Perché  questi volti di pietra/ vivi nella memoria/ rubano crepuscoli// Siamo soli/mio vento/ mia terra/ mio sole/ le mie mani sono coste d’argilla/ la mia voce pianto di cera.

Niente è reale in questo luogo privato della poesia. La realtà si è consumata nelle partenze. Si è custodi della distanza soprattutto per salvaguardare il ritorno.

 

Nella parola il paese  si specchia in una memoria diversa: la memoria come archivio del vissuto, ma anche come perdita del vissuto, come traccia vuota di un accaduto che si è sottratto alla coscienza, è scomparso nell’oblio.

Le case, i tetti, i vicoli del paese. Ma anche il vento. E la certezza lacerante che non c’è nessuna soluzione. Tutto è perduto e tutto continua ad esserci.

Paese in cui la carne, come scrive Rimbaud, è ancora un frutto appeso sull’albero. O il ruscello, che Mallarmé vuole poco profondo, è ancora nascosto nell’erba fitta.

Paesi che  nella loro essenza si assomigliano. Perché appartengono alla pagina, al libro. Perché sono vivi soltanto dentro chi li ha vissuti, in chi continua a viverli in questa memoria diversa che non promette soluzione.

Ci si imbatte spesso nei sogni nel mondo poetico di Pierfranco Bruni.

Ma che cosa sono i sogni per lui? Non sono certo i sogni di Pessoa così pieni di presenze oniriche, a volte anche inquietanti.

 Ma qualcosa di più intimo, di più quieto. Un sogno che accolga luoghi intemporali in cui perpetuare la certezza degli anni  ignari della loro sicura scomparsa, ignari dei tradimenti.

Sogno come musica dell’essenza. Come un lento scivolare lungo un silenzio maestoso.

Sogni che brulicano, sogni che si frantumano,  sogni esasperati, sogni allegri che giocano con il silenzio, sogni dimenticati,  sogni incisi su carta velina, sogni in fuga,  sogni diversi…

Sogni che scompaiono nella parola. Sogni che vivono nella parola. Parola che non rincorre mai la verità. Parola che non rincorre mai l’idea di saziare l’anima di chi scrive.

Pierfranco Bruni sa che occorre mettere una parola accorta, parola frammentata, già detta e da dirsi  nel suo personale libro che accoglie tutti i libri .

Lo sa perché ha circoscritto le sue età. Lo sa perché il ricordo è veramente l’ultima nobiltà che ci resta.



 




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