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Bisogna sconfiggere l’angoscia delle solitudini. Don Francesco Savino mi ha riportato la Parola di Benedetto XVI
giovedì 21 luglio 2016
di Pierfranco Bruni

Cosa ci resta oltre le solitudini vere? Quelle presunte, quelle fittizie, quelle che conducono alla Illuminazione, quelle sanno di Verità? Possiamo immaginarci soli e viviamo la solitudine quando al cospetto del nostro sguardo avvistiamo un orizzonte di nulla. Quel nulla che diventa un “sottosuolo” permea la mancanza di ritorni che vorremmo che affollassero il nostro esistere.
Vorrei vivere di ritorni. Vorrei non vivere di partenze. Noi abbiamo solo noi stessi nel momento in cui la solitudine diventa metafisica, ontologica, religiosa nelle sue varie forme. Non restiamo soltanto con noi stessi quando si percepisce che non si è mai soli. Il tremore che ci assorbe non è tanto per la nostra vita ma per le vite che ci stanno accanto.



Noi possiamo anche perderci e possiamo essere sconfitti, ma tutto ciò che è legato a noi non vorremmo che mai si perdesse. Non si tratta di una antropologia della solitudine nel timore della sconfitta. Piuttosto di un modo per approcciarsi al viaggio. L’infinito che si chiude, con il chiudere gli occhi, al finito.
C’è un mistero indelebile nelle nostre vite. Non siamo pietre. Neppure pontile dove le barche possano approdare e ripartire all’insaputa. Questa mattina ho ricevuto un pensiero di Benedetto XVI inviatomi da un Sacerdote – Vescovo che stimo tanto. Tanto poco ci siamo incontrati ma moltissimo da lui apprendo. Con la tenerezza, con il sorriso, con i Sacerdoti che sanno parlare ponendosi non come missionari soltanto ma come testimoni di Dubbio e di Fede (avrebbe detto Pascal).
Don Francesco Savino, arcivescovo di Cassano allo Ionio in Calabria, ogni mattina, puntuale, mi arricchisce con un dono che ha una ricchezza ineguagliabile. La Parola. Ebbene sì! La Parola è un destino di Testimonianza. Tra i doni di questa mattina c’è un pensiero di Benedetto XVI inviatomi, appunto, da don Francesco Savino.
Non mi resta che fare un copia e incolla. Poi ognuno di noi nelle proprie stanze dell’anima si darà un segnale. Bisogna credere in Dio pur non essendo in Fede. Perché il Dio che ognuno di noi abita è quel faro che si accende ogni qualvolta la nostra zattera si trova nel vent’altura, nello smarrimento del bosco e della foresta.
Qui c’è sempre un “chiaro”, come insegna Maria Zambrano, che ci permette di avvistare l’aurora.



Benedetto XVI ci porta un esempio e ci conduce oltre il bosco: “Se un bambino si dovesse avventurare da solo nella notte buia attraverso un bosco, avrebbe paura anche se gli si dimostrasse centinaia di volte che non c’è alcun pericolo. Egli non ha paura di qualcosa di determinato, a cui si può dare un nome, ma nel buio sperimenta l’insicurezza, la condizione di orfano, il carattere sinistro dell’esistenza in sé. Solo una voce umana potrebbe consolarlo; solo la mano di una persona cara potrebbe cacciare via come un brutto sogno l’angoscia. C’è un’angoscia – quella vera, annidata nella profondità delle nostre solitudini – che non può essere superata mediante la ragione, ma solo con la presenza di una persona che ci ama. Quest’angoscia infatti non ha un oggetto a cui si possa dare un nome, ma è solo l’espressione terribile della nostra solitudine ultima. Una cosa è certa: c’è una notte nel cui buio abbandono non penetra alcuna parola di conforto, una porta che noi dobbiamo oltrepassare in solitudine assoluta: la porta della morte. Tutta l’angoscia di questo mondo è in ultima analisi l’angoscia provocata da questa solitudine. Questo sta a significare però che anche nella notte estrema nella quale non penetra alcuna parola, nella quale noi tutti siamo come bambini cacciati via, piangenti, si dà una voce che ci chiama, una mano che ci prende e ci conduce. La solitudine insuperabile dell’uomo è stata superata dal momento che Egli si è trovato in essa” (Joseph Ratzinger - Benedetto XVI).
Bisogna fare in modo di vincere la solitudine che conduce alle agonie. Noi cerchiamo l’immortalità pur sapendo di doverla vivere come anima, come dimensione spirituale, come orizzonte di senso. Il buio è nella lacerazione della coscienza e dal buio si possono avvistare il nulla, ovvero il non senso perché il buio è Buio, o uno squarcio di tenerezza che è l’ombra che apre al chiaro. Simone Weil ci insegna costantemente ad attraversare l’ombra perché nelle ombre si possono nascondere le tenebre.
La paura della morte è il silenzio senza pazienza. Ma gli antichi sciamani mi hanno insegnato che il silenzio è sempre il corollario della musica. Cristo non vive l’angoscia nel deserto. Si prepara ad affrontare l’angoscia degli uomini e passeggia nella sua anima dialogando sempre con Dio.
Gli antichi sciamani senza Dio non si spiegherebbero. Ma Benedetto XVI ci ha condotto per mano lungo le vie in cui la Sua presenza è visibile con il “gesto” della spiritualità. Andiamo oltre, sempre più oltre, ma è necessario percorrere il buio del bosco per non dimenticare che la Luce ha sempre la sua Grazia. Un cammino in cui la vita ha il linguaggio della Rivelazione.
Grazie don Francesco per il dono che mi “impone” di viaggiare dentro i miei labirinti.






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