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Occorre essere pazienti per non morire di oblio nel tempo della mediocrità
venerdì 9 marzo 2018

di Pierfranco Bruni



Il fascino della bellezza ha un destino rotto. Bisogna impare a vivere in un destino rotto se si vuole insegnare ad avere pazienza.  “Habere, non haberi”. Gabriele D'Annunzio è come se suonasse sempre i tasti di un "notturno". Sia nella poesia che nel romanzo o nel teatro. La vita si vive per consegnarla, impeccabile, al destino come una opera d'arte.  Possedere. Non essere mai posseduti. È uno scavo di esistenza. Non un atteggiamento. Proprio nel Piacere ci annuncia: “Habere, non haberi” , ovvero “Possedere, non essere posseduto”.

Ogni decadenza è decadenza culturale perché il suicidio della politica passa inevitabilmente attraverso l'omicidio della cultura. Il piacere, il paradisiaco, l’innocenza, la morte, il segreto e il fuoco trovano nel notturno la magia e il suono delle alchimie.

Nel racconto melanconico di Gabriele  D’Annunzio le donne sono la pietra angolare nel suo scrivere. Il fascino delle donne dopo i  cinquanta è affascinante ed elegante. A quaranta è ossessivo. Prima è compassionevole nella irridente passione giovanile. Una illuminazione o un senso di dolore che attanaglia il dannunzianesimo ad oltranza.

Quando si è giovani la pazienza non solo è irrisoria, ma inutile. Quando si è meno giovani, ovvero dopo i sessanta, la pazienza è un obiettivo per diventare silenziosamente trasgressivi e ironici. Il Vittoriale è l’orgia del silenzio e del ricordo masticati tra le parole che si stradicano per avere un senso erotico.

Perché nel momento in cui la parola muore il tragico diventa delirio del presente e soltanto in questo momento del delirio supremo recuperi il senso del tempo che cui partecipa le assenze e le dissolvenze.

Bisogna saper vivere nelle dissolvenze se si vuole morire alla morte e rinascere nel diluvio dell’eterno che non ha mai la finitezza dell’infinito.

Vivere e sempre vivere rinnovandosi vivendo altrimenti lasciarsi morire: “O rinnovarsi o morire”.

Sempre il delirio è in agguato. Ma di delirio è necessario vivere per non essere solidale con una morte qualsiasi. Non sapremo mai quando sono alte le torri del castello sia di quello che ci sta di fronte che quello in cui abitiamo. Bisogna uscire dal castello per rendersi conto e comprendere il fascino del ritorno. Questa è una lezione nicciana che trovo intatta sia in D’Annunzio che nella mia testimonianza di vita.

Ci sono momenti in cui per vedere quanto sono alte le torri bisogna uscire dalle mura della città (Nietzsche). Altrimenti tutto diventa incomprensibile. Poi si ritorna perché troppo si è compreso. Questo è il mondo nel quale mi sono formato. Ovvero quello di Nietzsche di Zambrano di D'Annunzio. Bisogna accostarsi alle torri per capire le dissolvenze.

Ogni decadenza è decadenza culturale perché il suicidio della politica passa inevitabilmente attraverso l'omicidio della cultura. I secoli sono offesi dall’omicidio della cultura. La bellezza non muore. Viene dimenticata, oltraggiata, derisa, sciupata dalla luce senza brividi. Occorre sempre cercarla e difenderla: “Difendete la Bellezza ! È questo il vostro unico officio”. Viviamo di ferite e di difficoltà ma guai a non confrontarsi con i problemi. D’Annunzio ci dice: “Cum lenitate asperitas”, ovvero  “Le difficoltà vanno trattate con dolcezza”.

In una  Lettera ad Alessandra Carlotti di Rudinì D’Annunzio ha chiosato: “Credo nell’esperienza di un fato che ci genera e ci costringe a sporcare la faccia del mondo per vedere come ce la caveremo. Per difendermi ho imparato a maneggiare il fango. In fondo solo con il fango una mano sapiente può costruire qualche cosa che resista al fuoco. Anche se i più lo maneggiano non per costruire, ma per insozzare e per distruggere”.

La ricerca della bellezza resta un pilastro nella metafisica del tragico di un D’Annunzio che è sempre più legato al mito e agli archetipi.

Profetico anche sulla sua morte. Muore per essersi annoiato. E sa bene che “L'uomo a cui è dato soffrire più degli altri, è degno di soffrire più degli altri”. Bisogna, comunque, sempre uscire dalle pareti tra le quali abbiamo vissuto e osservare le torri del castello altrimenti resteremo sempre prigionieri di non aver constatato l’altezza delle torri. Non solo. Resteremo prigionieri di una sensazione che è quella di non aver mai osato giungere dove sarebbe stato possibile arrivare.

Il tempo è tragico ma bisogna toccare la tragedia per non morire senza essersi annoiati o  per morire essendosi annoiati abbastanza. In questo cerchio solo il grido della tentazione ci può attrarre.

Facciamoci attrarre dalla attrazione della volontà e della potenza per vivere come Ulisse, uomo mai distratto e sempre cercatore di passi da solcare e acque da navigare perché tutto ciò che si ha non è mai abbastanza o è semplicemente pensato non necessario. D’Annunzio è il camminatore delle isole inesistenti ma esistite nella volontà e nella potenza.

Bisogna non andare oltre i ripari della nostalgia. Essere impareggiabili per memoria ma soprattutto per pazienza. Oltre ci attente solo il deserto. In fondo, occorre essere pazienti per non morire di oblio. E si muore di oblio e si muore di nulla. In un tempo in cui la mediocrità ci calpesta bisogna soltanto imparare ad avere pazienza. Per insegnarla agli spiriti che credono alla ribellione. L’uomo in rivolta alla fine non crede più alla ribellione e le masse in rivolta non resistono alla rivoluzione del tragico.

 

 





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