Maria Carta NASCEVA il 24 giugno di 80
anni fa
Un viaggio etnico - rituale
nel suo canto poetico
DI PIERFRANCO BRUNI
Nei Canti di Maria Carta, nata a Siligo il 24 giugno 1934 e morta a
Roma il 22 settembre 1994, l’intreccio tra tradizione italiana e
linguaggio sardo delinea un percorso in cui lo scavo etno - linguistico non
definisce una rappresentazione ma sottolinea il “popolare” che è parte fondante
nei modelli etnici. Nel “Canto rituale” di Maria Carta c’è una spinta che si
avverte su due versanti. Quello della proposta di una vera e propria cultura
popolare attraverso parametri in cui il sentimento dell’appartenenza è un
graffio profondo nella civiltà di un popolo che si porta dietro un
“primitivismo” quasi ancestrale che è dovuto al luogo e alle eredità che
esprime un luogo non luogo. Quello linguistico che ha ramificazioni articolate
all’interno di un’area geografica che è quella chiaramente del
Mediterraneo ma la Sardegna , come tutta la cultura sarda, risente di influssi
che tengono insieme un intreccio tra Oriente ed Occidente. Un canto rituale nel
destino del mito.
Maria Carta sia nelle sue canzoni che nel suo testo poetico (la contaminazione
è fondamentale) si avverte la trascrizione di una geremia che sollecita
il cantico non favolistico ma funebre. Il rituale in fondo diventa uno scavo
nella coscienza della civiltà sarda ma nello stesso tempo accanto alle matrici
di derivazione vi sono le forme autoctone che insistono appunto come identità
del luogo.
Il “Canto rituale” di Maria Carta è un viaggio e viaggiando è come se
recuperasse i sistemi di una letteratura, in cui la terra madre rappresenta la
storia di un popolo come ethos ma anche come lingua. Sembra un andare nel regno
dei morti ma questo andare diventa anche un ritornare perché, ricordando o
ridefinendo i personaggi che sono nell’altrove, il presente esistenziale si fa
costantemente contemporaneità e la proposta letteraria e poetica è dentro il
processo esistenziale in un rapporto tra terra – memoria - rito. È come
se entrasse in quel viaggio di andata e ritorno che però ha delle valenze
tragico simboliche.
Il canto, così, diventa, una litania e la funzione di quella cultura
barbaricina è tutta intrisa di sguardi pesanti, di parole robuste, di accenti
drammatici. Un canto fatto di storie che raccontano la vita di uomini e di
donne che hanno abitato l’isola e l’hanno vissuta come metafora di una “Spoon
river”, ovvero alla Lee Masteers.
Lingua e fenomeni antropologici (etno – poetici) sono un unicum che
caratterizza il “Canto rituale” di Maria Carta come in questi tre versi dal
testo dal titolo “Bigia de riu”: “Amore fadadu/fuggito lei gli ha fatto
fattura”.
L’ethnos che campeggia ha un profondo radicamento, il cui legame è tutto
giocato tra lo strumento della parola e quindi l’uso del linguaggio e il
contenuto. Termini come: “De sa catighera”, “la pupìa”, “fadada”, “sotto le
pale de sa catighera” ci riportano a un mondo mitico che soltanto nel
linguaggio lirico sacrale è possibile catturare. I tre concetti
dell’etno-storia dell’etno-linguistica e dell’etno-letteratura sono ben
definiti proprio nella ritualità del suo linguaggio.
Il mito, comunque, resta un arcaico nel linguaggio rituale che si fa, appunto,
canto. Ed ecco ancora le ramificazioni di una antropologia della penetrazione
nel tempo: “Ai bagliori del fouco il mio libro/illustrato fissavano i nudi
greci/poi Madau vide Mosè/le sette piaghe d’Egitto mise il pugno sul libro”(Da
“Mattia Madau”). Si nota l’evidente rimescolio del raccordo tra cultura e
lingua.
Il viaggio continua tra i destini di una terra e i “rimitanos”, ovvero i
diseredati. E in questa terra di civiltà assopite c’è sempre una bambina che
sembra avere le mani di vento. Ci sono i segreti e i ricordi, le madri defunte
che con la loro ombra raccontano il tempo della storia nel tempo del presente
non dimenticando “i piedi scalzi dell’infanzia”. È come se si entrasse sempre
nell’anima di un paese: “Entro stanotte in questo paese/che ha luci gialle stravaganti/è
gente all’antica vestita di bianco”(Da “Efisio Concas”).
Il canto (o il cantico) di Maria Carta è un attraversare il senso di un tempo
mascherato ma mai scomparso che la ritualità del canto porta sulla scena con il
suo battuto dentro un “bidda beru” con le “boghe” che provengono da lontano. E
così il paese vero, quello vissuto da Maria e quello che noi abbiamo tra i
segni dei ricordi, si ascolta nella memoria metaforizzata dal linguaggio e dal
ritmo.