Muore la poetessa Nina Cassian. Una vita per la parola
e nella poesia delle “sparizioni”. Dalla Romania a New York
di Pierfranco Bruni
C’è modo e modo di sparire. Di
respirare. È proprio vero. Basta un urlo. Oppure bisogna aspettare sino
al termine della notte o raggiungere l’inizio del giorno. La poesia è stanza e
anticamera. Labirinto e assurdo. Disperazione e assoluto. Dio e
impazienza?
Ma è certo che la poesia non conosce
la noia e il relativo. Perché è sempre il mistero e l’alchimia che tagliano
l’anima e squarciano il petto dell’impossibile e dell’indissolubile.
La poesia di Nina Cassian, nata in
Romania, a Galaţi, 27
novembre 1924 e morta a New York il 15 aprile 2014, è una poesia dalle ali di una
farfalla strappate al vento spaginato dalla pioggia battente.
Il triste
desiderio di capire il destino ha sempre il destino triste delle solitudini che
la parola intreccia con il silenzio. Mai con l’oblio.
Se ci
fosse oblio non ci sarebbe l’estrema esasperazione del verso. Come in un
cammino in cui la dissoluzione dei miti strazia ogni punto del viaggio. La
poesia è il porto scomparso.
Il porto
che non si vede e il suono della nave che non si ascolta e non si regge senza
il marinaio che va in avanscoperta. Siamo tutti marinai con le mani incallite
dai duroni della corda che si tende per rischiare una sferzate del vento in
tramontana.
Nina
Cassian distrugge le idee e le ideologie. Scappa dal suo Paese. Rinnega il
comunismo. La pigrizia della metafora si auto assolve dalla inclusione delle
accettazione e riparte dallo scoglio della (sua) vita. È un viaggio più che una
fuga. Ma il suo ritorno diventa poi una metafora della fuga. La metafora della
fuga.
La fuga è,
comunque, un ancestrale scavo nelle assenze del silenzio per consegnarsi
completamente alla notte.
Come in
Cioran, la cui disperazione dei linguaggi è disperazione di esistenze. Sì, come
in Eliade che si cerca nel labirinto e si immagina di navigare tra le rive e le
isole di Ulisse. Come Ionesco che recita l’assurdo per trovare l’enigma.
La poesia
è una essenza. Sparire. Quanti sono i modi di sparire?
Ci sono
modi e modi per sparire. Il titolo del suo libro edito in Italia nel 2013: “C’è modo e modo di sparire (poesie
1945-2007)” - a
cura di Ottavio Fatica – traduzione di Anna Natascia
Bernacchia e Ottavio Fatica – Adelphi 2013, è un attraversamento di fughe,
viaggi, acqua tra le dita che bucano il vento. Appunti di anima. Appunti nello
spazio e nel tempo.
Titolo: “Preghiera”
“Se esisti per davvero – fatti avanti,
sii nuvola, caprone, aviatore,
porta con te occhi, bocca, voce,
- chiedimi qualcosa, lascia che mi sacrifichi,
prendimi tra le braccia, proteggimi,
nutrimi con la settima parte di un pesce,
fammi un fischio, dissodami le dita,
ricolmami di aromi, di stupore,
- resuscitami”.
Esisti per davvero. Ma per davvero il
desiderio è il destino che solchi i nostri passi.
Perché lungo i passi ci sono le cifre
di un dolore che è tragico inquieto degli scavi nella terra del cuore e
nell’anima.
Sono scavi tra le zolle dei ricordi
che rigano il tempo. Vissuto sconfitto perduto riconquistato.
La poesia è labirintica. Se ci fosse
il filo intrappolato tra i sogni i sogni non avrebbero respiro.
“Io sono io.
Sono personale,
soggettiva, intima, singolare,
confessionale.
Tutto quel che mi accade e si ripete
accade a me.
Il paesaggio che descrivo
sono io stessa”.
E poi silenzio. Perché il silenzio è
sempre una trincea. Si resta in trincea per vincere la sopportazione e restare
nel gioco infernale della pazienza.
Già, perché la pazienza non è un lento
fascino della contemplazione. Si giunge alla pazienza sconfiggendo la
disarmonia. Bisogna fermarsi un attimo prima che possa giungere il disamore. Si
vince il disamore scavando nei buchi del sottosuolo.
Siamo invasi dalla polvere che non è
più sabbia. Dalla rocca che non è più scoglio. Dalla mareggiata che non è più
marea. Perché tutto ciò che succede succede nel mio cuore. Ma non succede
soltanto. Si ripete anche. E tutto ciò che si vive si vive perché vive in me e
io sono la vita. Ed essendo la vita posso essere e sono anche la morte.
In fondo cosa accade nella geografia
della mia metafisica, nella geografia della poesia, nella geografia di Nina
Cassian?
Ecco:
“Le unghie si ritraggono,
si gonfiano le dita.
Non scivolano più
sotto il ponte abbattuto dei miei anelli”.
Dopo tutto arriva Celine a congedarsi
dalla notte. Non solo dalla sua, ma anche dalla notte nostra. La fine della
notte è l’accaduto. E inizia il viaggio nel labirinto che resta, Eliade, la
prova tra le caverne scavate nella profondità dello sguardo.
E poi resta : “…- qualcosa che nessuno sa
decodificare”.