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In quella notte di dicembre la luna stillava di chiaro il bosco della vita e tu non c’eri più padre mio
mercoledì 17 dicembre 2014

di Pierfranco Bruni






Raccontare del tempo che se ne va è come raccontarsi

 

Raccontare del tempo che se ne va è come raccontarsi. Eppure le rose del giardino non contano più le ore o le stagioni. Sono rimaste lì asciugate dalla pioggia o rigate dal sole.

Ogni passaggio di parole è un vento tiepido nella carezza di una notte, che sembrava infinita, ma che è scomparsa come se fosse una cometa tagliata da un dicembre che ha raccolto tutto il silenzio delle tartarughe. 

Sono passati anni. Non molti. Anzi meno di ciò che pensavo in una geografia di un esistere toccato dai costanti ricordi. Eppure tutto è cambiato.

Si cambia. Certo, siamo noi che cambiamo, ma cambiamo perché è ciò che viviamo che muta e con il vissuto si stracciano le pagine di una vita, che ha raccolto tante vite, tanti passati, tante memorie in una stretta di malinconie.

 

Osservo, sfoglio, tocco tutto ciò che mio padre ha lasciato depositato sulle sue scrivanie dei giorni perduti. E leggo i suoi appunti.

I suoi appunti sino a qualche giorno prima del suo viaggio…

Quel viaggio che lo ha condotto al settimo piano del castello…

Così diceva negli ultimi giorni del suo percorrere nomi e volti, echi e voci che provenivano da distanze mai capite, eppure dialogava con se stesso e con noi, con me… Con me…

 

Ho scritto, in queste lontananze che mi separano dalla sua fisicità, quaderni nei quali ho inciso l’indissolubile e so di non aver fatto abbastanza per raccogliere l’ultima conchiglia che custodisce il suo saluto, la sua voce, il suo silenzio con il quale ha chiuso la tenda e il teatro è rimasto senza più applausi.

 

Caro papà,

con te è andato via tutto un mondo, quel mondo che aveva come sguardo attento la pazienza ed io combattente come te, pur restando in trincea, mi sono lasciato aggredire dalle nostalgie.

Ti avevo promesso di non custodire le nostalgie, ma di prendermi cura del giardino e dei fiori e delle piante e delle tartarughe, ma come sai ho perso tutti gli appuntamenti, perché a questi appuntamenti sono giunto in ritardo come sono giunto in ritardo quando ti sei consegnato al silenzio.

Lo so, tutto ha un senso ed io cerco di ricostruire questo senso degli orizzonti…

 

Sai, c’è una stanza sul mare da dove si vede l’onda della Calabria ed io ti immagino come il capitano di una nave che cerca di oltrepassare il filo dell’orizzonte che lega o divide il cielo con l’azzurro delle acque… E ti immagino sempre dritto come quando mi guardavi fisso negli occhi mentre io ti parlavo e ti raccontavo di me…

Lo so che non ha più un significato profondo cercare i ricordi e distribuirli lungo i passi che sconto ogni giorno, ma questo non significa nulla perché io non ti voglio perdere come tu non mi hai perso e, quotidianamente, ci sei e siamo ormai in due a decifrare il senso anche se so che le solitudini non sgombrano la via dalla solitudine…

Restano sempre due solitudini in uno smarrimento che disegna arrivi e partenze e ti posso assicurare che non so se tu sei una partenza, nel viaggio, o un arrivo…

Scrivere ancora su di te è ripetere tutto ciò che ho già scritto in pagine pubblicate, in un romanzo da stampare, in una storia dove incontri i tuoi quattro fratelli: tu, Adolfo, Mariano, Gino e Pietro.

Ecco. Virgilio Italio, Adolfo, Mariano, Luigi, Pietro. Vi siete ritrovati come nel gioco tra un’infanzia e una giovinezza e ho ricostruito un mosaico di immagini dove siete nella verità della giovinezza.

Tu, che somiglia a Virgilio e lui di te ne porta la fierezza e a Micol per la sua coerenza nelle idee e nell’orgoglio.

Adolfo che non smette di fumare nel gioco delle cinque donne di casa.

Mariano nel suo essere professore sino in fondo con quella capacità ermeneutica che leggo negli occhi di Giulia e nel suo accento paziente.

Gino che leggeva la storia nel diritto amministrativo.

Pietro che fotografava i volti per custodire gli sguardi…

Insomma ci siete tutti e in questo vostro incontro avete riunito la nobiltà di nonna Giulia Gaudinieri, come discendente dell’aquila con la rosa rossa nel becco e di nonno Alfredo, possidente e aristocratico anche nei modi, nella continuità di un commercio che ha segnato l’economia di un territorio.

 

Caro papà,

non hai mai detto che è tempo di rincasare e tu, pur avendo letto le poesie di Cardarelli. Ci hai sempre imposto a non arrenderci e mi hai scritto che bisogna essere creativi sino all’ultimo istante, perché non sai mai quando quell’ultimo istante giungerà…

Ora che so che vi siete ritrovati, i cinque fratelli, vi penso sempre insieme nonostante un attraversamento di generazioni, ma nel vostro stare insieme c’è sempre ciò che vi ha caratterizzato: la nobiltà, la fierezza, il coraggio, la dignità.

Non è semplice, in questo nostro tempo, essere gli eredi di una famiglia come la vostra: Bruni – Gaudinieri.

Io sono orgoglioso di averti avuto come padre e come testimone di pazienza.

Sono orgoglioso di aver avuto zio Adolfo come sorridente e ironico giocatore di sguardi attenti fissati tra un angolo di strada e la piazza.

Sono orgoglioso di aver avuto un maestro come zio Mariano, rigoroso e ha tracciato la strada che mi ha permesso di camminare a testa alta legando i saperi e l’umanità, in una profezia, che sono stati indicatori di vita. Oggi a lui devo molto ed era legatissimo a mio padre in quel percorso di vita tra San Lorenzo e Cosenza.

Sono orgoglioso di aver sempre dialogato con zio Gino e di avermi raccontato i miei libri leggendoli senza chiedermi spiegazioni.

Sono orgoglioso dell’eleganza di zio Pietro che si è portato nel cuore sempre una giovinezza straordinaria con quel suo parlare scherzoso.

Io, noi, noi figli di questi padri, dobbiamo essere tutti orgogliosi di averli avuti come riferimento, come solchi di esistenza, perché loro lo sono stati di noi e lo dicevo, non molto tempo fa, con Giulia, Giulia la prima, la bimba che ha tra le braccia nonna Giulia nella storica fotografia di famiglia.

Nella loro dignità e nel loro rigore. Se non avessi capito il rigore e la durezza dello sguardo di zio Mariano quando si parlava di scuola e di studiare non sarei qui oggi a raccontare. E mio padre era sempre lì a raccogliere e a ripetermi quelle parole…

 

Siamo a dicembre… Il mese di zio Adolfo e mio padre… Gli inverni che hanno toccato anche zio Mariano e zio Pietro e poi zio Gino…

La storia non finisce e non è neppure vero che la storia siamo noi. È una menzogna continuare a dire che la storia siamo noi… Un ritornello partigiano che è distante dalla nostra nobiltà…

Noi non siamo la storia. La storia è fatta di noi perché noi siamo un attraversamento di tempo e questo nostro tempo diventa sempre più inesorabile, indissolubile o meno ma sempre traghettatore di vissuti…

Ci portano nell’anima e nel sangue una grande eredità: quella dei Bruni – Gaudinieri… E ognuno di noi dovrebbe poter guardare le stelle nelle sere di foschia, e lanciare lo sguardo oltre ogni finito perché l’uomo che sa ascoltare le stelle è sempre infinito… E noi non siamo la storia…Ma siamo il tempo nella storia…

 

Sono passati mesi, anni e gli occhi che sapevano di vuoto di mio padre vivono dentro di me, quello sguardo tra un’assenza e una cerca non smette di navigare nel mio cuore. È incollato tra le pareti della mia vita. Ma anche quel suo salutarmi ogni qual volta partivo, quel suo viso sempre morbido, sembrava sempre appena rasato e con la freschezza di un vigoroso dopo barba…

Non c’è più! Oltre la storia il tempo è in noi.

 

La casa in paese ha ormai una sola palma, le tartarughe sono fuggite e si sono ritrovate a narrare la favola di un sogno che custodisco non solo come se fosse ieri, ma come il sempre che segna le rughe delle mie mani e le mani di mio padre strette tra le mie o le sue tra le mie. Ma il tempo resta inevitabile…

Un altro dicembre in una nenia che sa di luna nascosta tra i peperoncini, ormai appassiti, del giardino e la pianta di fejoia che è stata il cerchio d’ombra delle mie estati di un’infanzia antica che ha lo scavo di un vento d’altura…

 

Papà quando ti hanno sceso da quella scala, gradino dopo gradino, nel dicembre di pioggia e di sole le orchidee che tu avevi piantato non credevano a quella partenza, che è diventata il tuo viaggio…

Ed era di dicembre…

Tu mio capitano, già, Capitano, mio Capitano ed io per tutta la durata di quel cammino, che va dalla grande casa alla chiesa e dalla chiesa al cimitero, ero completamente assente… Con te ma distante da me…Ti cercavo e c’eravamo tutti e anche tu…

Non pensavo alla tua morte, ma semplicemente ad uno dei miei tanti saluti… Neppure oggi, in questo dicembre, penso alla tua assenza come un morire nella morte… So che ci sei, lungo le vie del deserto, tra le strade del mio Cristo, nel mio saluto che ho voluto che si incidesse sulla tua lapide: Namasté…

In quella notte, tra le folate di vento e gli sprazzi di pioggia, nel buio annunciante l’alba, mi hai detto tutto ciò che io non ti ho mai detto…

Ed era di dicembre… Gradino dopo gradino ti ho accompagnato…

La vita è sempre un raccontarsi anche ora che lego le distanze alle separazioni, e queste le stringo ai fili della luna, che in quella notte stillava, in un sollievo, di chiaro il mio bosco…

In quella notte di dicembre la luna stillava di chiaro il bosco della vita e tu non c’eri più padre mio…E continuavi a vivermi ed io a viverti come questa sera e ancora per tutte le sere…




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