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Solo chi afferma che la storia siamo noi vive la barbarie dell’intolleranza
lunedì 29 dicembre 2014
e non conosce il cammino dei popoli tra le civiltà e le etnie

da csrbruni@alice.it

 


Solo chi afferma che la storia siamo noi vive la barbarie dell’intolleranza
e non conosce il cammino dei popoli tra le civiltà e le etnie
 
di Pierfranco Bruni
 
 
Le parole sono accorgimenti dei simboli. I simboli sono nel cerchio degli archetipi e del mito. I miti trasferiscono l’orizzonte della parola nell’immagine e l’Immagine nel linguaggio: dai segni allo sguardo, dagli occhi alla materialità. Ma i simboli traducono ciò che vedono in immagini e le immagini, spesso, raccontano. Racconti che sono fantasie, finzioni e realtà. Ma il tutto è un intrecciare ciò che resta di quello che chiamiamo tradizione. La tradizione vive in una antropologia che è fatta di fisicità, ma anche di metafisica, di metafore e di una dimensione in cui gli oggetti si dichiarano e si decodificano.
Si pensi alle etnie dei popoli indiani, ai Nativi, alle etnie non Occidentali, agli Orienti dei monaci tibetani, alle culture musulmane ed islamiche. L’Occidente conosce il sacro attraversando Costantinopoli in una visione in cui gli Imperi si dividono tra Occidente ed Oriente. Le Chiese hanno la teologia dell’ubbidienza. Ma l’ubbidienza è l’imposizione oltre il concetto di libertà.
I linguaggi sono immensi ma anche immersi nell’invisibile e nel visibile. Si pensi al legame tra le etnie e i linguaggi musicali. Un legame importante per cercare di comprendere i processi culturali che le minoranze storiche vivono in un intreccio in cui identità, nella contemporaneità, ed eredità, in una dimensione metafisicamente scavata nella tradizione, rappresentano la coscienza di un popolo che si definisce nella permanenza della storia delle civiltà.
I linguaggi musicali sono modelli etnici e come tali sono una espressione non solo pedagogicamente da considerarsi sul piano culturale, bensì anche esistenziali. Noi non possiamo essere la storia. Siamo dentro la storia, ma è la sconfitta della libertà e la rivincita dell’ubbidienza  a sostenere che la storia siamo noi. Il mondo tibetano è una etnia ma non conosce il concetto di storia perché si decifra nel concetto dell’Illuminazione che diventa il sublime dell’immaginario.
Comunque la griglia culturale ed esistenziale necessita di un valore di fondo che è quello dato dalla tradizione. Un’etnia si regge su un tessuto fortemente radicato nella visione di una tradizione che diventa espressione di un senso e di una tradizione attraverso modelli antropologici ed elementi linguistici.
Una tematica  che è parte integrante di quella lettura comparata tra l’identità di un popolo e l’eredità che una civiltà incamera nell’intreccio tra valore e disvalore dei linguaggi.
Una koiné è sempre un linguaggio che rende una etnia radicamento. Se una etnia non avesse un suo preciso radicamento non avrebbe una sua antropologia dell’esistenza. Va considerata esistenza e come tale resta uno scavo sia nel territorio, che è geografia fisica dei luoghi, sia nella testimonianza metafisica, che è una geopolitica nella coscienza dei popoli.
I linguaggi etnici, proprio da questo punto di vista, si incontrano con le lingue e le lingue sono una vera “struttura” di una comunicazione che è chiave di lettura di una articolata contaminazione. Le etnie vivono, sostanzialmente, di contaminazioni.
Bisogna fare in modo che pur restando tali, in senso positivo, si definiscono in un confronto tra ciò che chiamiamo cultura e ciò che definiamo civiltà. Ma tra le minoranze linguistiche, non solo storiche ma di quelle storiche occorre parlare, e la metafisica delle etnie il raccordo resta fondamentale.
Così i linguaggi sono sempre linguaggi articolati e comparati. In fondo una etnia ha la sua profondità antropologica dalla quale cultura, popoli e civiltà sono una ontologia dell’esistere. Partendo da qui la geografia è una filosofia del dialogo e della conoscenza. In virtù di ciò è la solitudine di una comunità che la rende straniera, mentre i linguaggi occupano lo spazio della estraneità.
Si è stranieri se si è distanti. Una comunità etnica che assorbe il concetto della distanza corre il rischio dello sradicamento. Invece bisogna considerare una etnia sempre un radicamento reale, quindi storico, ma anche un radicamento, appunto, metafisico.
I linguaggi sono comunicazione. Ovvero sono partecipazione. In un tempo in cui lo sradicamento coinvolge tutti e tutto, il senso dell’appartenenza diventa un obiettivo nella “religione” dei linguaggi. Il linguaggio resta un suono. Il suono è un sentire, un avvertire, un ascoltare. Ma è anche una lingua.
La lingua parla. Parlare con se stessi, ma il se stesso non è una interpretazione. È un essere che non si serve di fattori fenomenologici, ma esistenziali. Proprio per questo i linguaggi recuperano la tradizione e portano sulla scena una eredità.
La parola – suono è il suono nel linguaggio. Una etnia si base anche su questi riferimenti. Ma noi viviamo di riferimenti e sono questi che costituiscono la chiave di lettura che ci permette di vivere l’interpretazione del rapporto tra civiltà e tradizione. Una etnia è sempre l’incontro tra ciò che è stata una civiltà, ciò che è una tradizione e il vissuto di una identità nella rappresentazione del quotidiano.
L’etnia è il linguaggio di una identità tra le eredità delle civiltà e il tempo che cammina nella storia. Ma la storia non siamo noi. Timidi interpreti di una ipocrisia senza senso chi sostiene che la storia siamo noi. Noi possiamo restare dentro la storia o come possiamo perderci. Chi ubbidisce al concetto della storia siamo noi si perde, non nel labirinto stesso della storia ma nella barbarie della storia.
Chi afferma che la storia siamo noi vive la barbarie dell’intolleranza e non sa che soltanto le religioni incidono il solco nell’intolleranza. Ma le religioni hanno un assoluto ideologico che supera il mistero della fede. Sono le civiltà che danno l’identità alla storia, a quella storia che sa raccogliere le archeologie del sapere e i saperi delle culture.
Le etnie sono vissuti di popoli in cammino e l’antropologia dell’umanesimo segna gli uomini liberi, contemplanti nella fortezza della solitudine e nella grandezza della cerca dell’illuminazione. la storia per essere tale deve poter leggere le civiltà i popoli e le etnie. Solo chi afferma che la storia siamo noi vive la barbarie dell’intolleranza
e non conosce il cammino dei popoli tra le civiltà e le etnie che resta il viaggio che “spacca” le frontiere delle ideologie e rende, oltretutto,  intellettualmente liberi.
 
 
 





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