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TRA OCCIDENTE ED ORIENTE. OVIDIO E IL SUO VOCABOLARIO DELL’ESTETICA
venerdì 7 luglio 2017

di Pierfranco Bruni


Il tempo misura sempre gli anni e gli anni si fanno memoria sia negli uomini che nella letteratura perchè la letteratura decifra le esperienze degli uomini. Decifrando le esperienze degli uomini, porta dentro di sè il linguaggio dei modelli, che sono per lo più modelli esistenziali, il cui corpus costituisce un intreccio tra il quotidiano (ciò che noi vorremmo fosse il quotidiano) e quello che dietro il quotidiano si nasconde come dimensione onirica.

Ovidio (Sulmona, 20 marzo 43 a .C. – Tomi, 17) ha rappresentato, nella complessità della sua opera, un intreccio tra metafisica della parola e filosofia stessa della parola. “Metafisica” e “filosofia” potrebbero, quindi, costituire le chiavi di lettura per comprendere il suo rapporto con i linguaggi.

Per Ovidio i linguaggi non sono soltanto comunicazione, bensì espressione lirica all’interno dei processi esistenziali che diventano onirici mediante la poesia. Si pensi alle “Metamorfosi” che simboleggiano il caposaldo di una letteratura alla quale faranno riferimento tutti i protagonisti delle letterature moderne a iniziare da Dante. Senza le “Metamorfosi”, che esprimono il centro di un rapporto tra mito e simbolo, tra archetipi e dimensione metaforica del termine, Dante avrebbe forse scritto diversamente la sua “Divina commedia”.

Sono le “Metamorfosi”, riprese in seguito da altri autori, fino alla suggestiva trasposizione che ne fa Kafka, a raccontare, attraverso un recupero della grecità, un passaggio di civiltà tra il mondo greco e latino. Ma in Ovidio i miti o il mito in sè non avrebbe senso se dovessero venire meno questi passaggi, a mio avviso di un’importanza notevole, tra la parola poetica, la parola parlata e la parola concordata con il quotidiano.

Si pensi anche alla sua “Ars amatoria”, alla sua poesia, a quella poesia che è un battito costante dell’anima, un battito costante del cuore, ma che diventa un battito costante di un rapporto tra fisicità, carnalità e pensiero filosofico. Il legame tra anima e carnalità in Ovidio costituisce il nodo scoperto che si trasforma, a sua volta, in quello che Pirandello definirà “la maschera dell’altro”. Pirandello, che aveva conosciuto e studiato Ovidio, porta dentro di sé, soprattutto nel “Mal giocondo”, queste visioni, queste trasformazioni. La donna per Ovidio diventa la grande passione che unisce la dimensione onirica dell’anima, quindi l’esistenza della centralità dell’anima, con la passione della carnalità. Non può esserci amore, in questa arte amatoria, se questi due aspetti non arrivano a coincidere. Dunque il sangue, come forma di una tradizione, diventa carne e in Ovidio la carnalità, o la fisicità, ha una trasposizione, in fondo, con la metafisica.

Comprendere questi aspetti in Ovidio significa anche recuperare il senso di ciò che egli stesso ha definito “arte di amare”, poiché l’arte di amare in Ovidio diventa (ed è tale) una condizione dell’essere uomini e del vivere all’interno della consapevolezza e della coscienza dello stesso “essere uomini”, tant’è che i suoi piccoli grandi amori lo hanno portato ad essere il protagonista di una dimensione che parte dal dato lirico-onirico per poi diventare un vero e proprio modello scavante nei linguaggi.

Cesare Pavese ha studiato molto Ovidio. In “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi” sono presenti parecchi elementi che rimandano a questa dimensione onirica. Il senso onirico in Pavese diventa quel senso del tragico che troviamo in “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”. Anche in Ovidio vi è lo stesso senso del tragico.

Come si manifesta in Ovidio il senso del tragico? Si manifesta con la propria vita, con il proprio essere, con la propria esistenza. Lui vive la realtà dell’esilio ma, allo stesso tempo, vive anche la metafora dell’esilio. Da Sulmona viene esiliato prima a Roma e poi in Romania dove morirà con la grande visione del ritorno. In lui è presente la grande dimensione del nostos. Si ritorna al concetto omerico, quel concetto che diventerà la “visione omerica” nella cultura occidentale.

Ma tutti i miti, i simboli, che sono miti e simboli di una cultura occidentale in Ovidio, anche in questo caso si trasformano in un’articolazione antropologica del recupero degli archetipi. Ecco perché è necessario acquisire una visione complessiva di Ovidio partendo proprio da questo intreccio tra la metafisica delle “Metamorfosi” e l’arte amatoria, perché in questo viaggiare, nella sua arte amatoria, c’è tutta la consapevolezza che Ovidio non solo resta antico, ma che quella sua antichità rispecchia la nostra contemporaneità. Il legame tra contemporaneità e modernità nel linguaggio poetico nasce proprio nel momento in cui Ovidio trasforma le sue “Metamorfosi” in una dimensione onirica.

Dicevo del suo esilio. L’esilio di Ovidio è stato un esilio forte, come lo è stato quello di Pavese quando è stato esiliato a Brancaleone Calabro portandosi dietro le sue radici, il suo radicamento. Ovidio porta in Romania il suo mondo romano, ma anche in quel contesto la Romania era una penisola in sé, metaforicamente un’isola della latinità e questo mondo latino diventa a sua volta anche consapevolezza che la poesia è universale.

È questo il motivo per cui continuiamo a parlare di Ovidio, ricercando l’equilibrio nella sua poesia. Tuttavia, sarebbe opportuno riconsiderare il legame tra arte poetica, arte linguistica e arte d’amare.

Siamo alla concezione dell’arte.

Forse tra gli antichi, Ovidio è stato colui che ha inserito, in maniera più suggestiva, l’estetica nell’ambito di queste tre caratteristiche artistiche. È stato un grande poeta dell’estetica e dell’arte amatoria. È diventato tale, rappresentando l’arte amatoria nella parola, mediante la contemplazione della dimensione estetica della parola.

L’arte amatoria, l’arte poetica e l’arte d’amare diventano in lui (e grazie a lui) un vero e proprio vocabolario dell’estetica.

Ovidio simboleggia un vocabolario della poesia d’amore, ma nello stesso tempo, rappresenta un’enciclopedia di quei miti, di quei simboli, di quella stessa ritualità e gestualità che troveremo intatta in Dante Alighieri.


Pierfranco Bruni







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