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La lingua bene culturale immateriale:
portatrice di tradizione e educazione nella civiltà di un popolo

martedì 24 ottobre 2017

di Pierfranco Bruni*
(Mibact)



La funzione della lingua in un contesto di culture comparate apre un dialogo vasto tra il concetto di immateriale e materiale all’interno della decodificazione dei beni culturali. La lingua non è mai ideologia. Ha la sua dialettica in un processo che è pedagogico e metodologico. Il dibattito aperto da Manzoni non si è mai chiuso. Così quel grande pensiero che vive nel De Vulgare di Dante. Bisognerà dare un ruolo consistente alla lingua italiana soprattutto partendo dalla letteratura del Novecento.

È in essa che si sono moltiplicate le forme e le metodologie di linguaggio che hanno guidato la storia della lingua nella modernità, attraversando epoche ed opere già con San Francesco d’Assisi sino ad Angelo Poliziano, dal Rinascimento alle ‘etichette’ illuministiche, che hanno cercato di formulare un inciso rivoluzionario, ma che hanno consegnato la lingua stessa a Manzoni, e da questo alle avanguardie di Pascoli e D’Annunzio, filtrando notevolmente il Futurismo sino alla lingua post realista, alla quale la letteratura si è agganciata e alla quale soprattutto il cinema si è aggrappata.

Dopo gli anni Sessanta si è verificata una vere e propria modifica dei canoni e se si vuole di un vocabolario. Dagli anni Sessanta ad oggi la lingua ha assunto precise chiavi di lettura.

Quella codificata da una norma dei vocabolari che hanno assorbito i cambiamenti anche sintattici e le forme dialettali, oltre alla assunzione di comparazioni con la lingua inglese, lingua che in molti termini ha preso il sopravvento, ma che è la lingua italiana ufficiale. 

Quella correntemente parlata che, se pur in una forma corretta, ha innesti modulari rispetto a quella scritta perché ha tagli favoriti da un linguaggio piuttosto discorsivo. 

Quella cosiddetta “bastarda” che è dovuta all’intreccio tra una scrittura giornalistica, televisiva, telematica con ulteriori innesti che sono distanti dalla tradizione degli anni Settanta. La lingua non è mai ideologia.

C’è una quarta chiave di lettura, non inclusa in un discorso ufficiale ma insiste, che è quella che proviene dai testi delle canzoni. 

I giovani usano come forme direzionali della comunicazione l’incrocio delle due ultime chiavi per confrontarsi, per dialogare, per definire un qualcosa e anche per definirsi. 

Io addirittura aggiungerei ancora una quinta chiave che è quella portata dalla presenza delle lingue degli immigrati. Non sarebbe da sottovalutare considerato il fatto che sono detentori di un loro linguaggio comunicante ma sono anche depositari di una loro lingua. Non sempre il loro linguaggio comunicante, che potrebbe essere inteso come una caratterizzante formula dialettale, si pensi agli albanesi o agli arabi tunisini ed eritrei, è fedele alla lingua della loro Nazione. Anzi non lo è quasi mai. 

Tutti questi aspetti riguardano l’importanza di dare un senso storico alla tutela della lingua italiana. È naturale che non c’è più una lingua ufficiale tradizionale. La tradizione nelle lingue è un fatto soltanto di consapevolezza di eredità, di ricostruzione identitaria, di analisi dei processi sia letterari sia storici stessi sia prettamente linguistici, ma si scende in una dimensione che è antropologica. 

Discutere di una lingua corretta, oggi, significa ripristinare delle griglie che però, dobbiamo essere consapevoli, non corrispondono alla realtà dei parlanti e degli scriventi. Il parlante già di per sé, pur mantenendo fede, alla consueta formula della grammatica e della sintassi, usa sempre un vocabolario innovativo: innovativo, oggi, è anche il ripescaggio di termini obsoleti, ovvero una parola usata da Tommaseo è innovativa ma anche “arcaica”. 

Lo scrivente, che dovrebbe usare la lingua come estetica e correttezza dell’ufficialità e dell’esempio, potrebbe essere lo scrittore. Dante e Manzoni sono esempi  e testimonianze che rispecchiano un tempo linguistico che non c’è più. 

Noi parliamo, in questo nostro tempo, il linguaggio di Andrea Camilleri, che ha una interpretazione prettamente etno-antropologica (ne parlo in senso non negativo: attenzione), il linguaggio di Carlo Emilio Gadda con le varie sfaccettature, anche sul piano della punteggiatura, (lo dico senza voler entrare nella rivoluzione linguistica futurista che ha stravolto la lingua italiana: si può accettare o meno ma è così), il linguaggio di Alberto Bevilacqua con delle sfaccettature anche discutibili, ma che io accolgo con piacere, il linguaggio di una scrittura puramente giornalistica trasportata come una nuova impostazione narrante in testi che si fanno passare per narrativa, il linguaggio attento di Pasolini che soltanto ora trova una sua interessante ottimizzazione. 

Sono solo pochi esempi. Si pensi a Luigi Meneghello o a Lucio Mastronardi o ad Alberto Moravia o alla poesia di Giorgio Caproni. Noi viviamo in questa età e non tra Dante e l’Illuminismo o tra il Romanticismo e Ada Negri. 

Poi c’è la presenza degli scrittori stranieri che, se pur tradotti, vengono ben recepiti sul piano della sintassi ma soprattutto su quello della punteggiatura. Uno scrittore per una testimonianza importante: Garcia Màrquez di “Cent’anni di solitudine”. Il romanzo che gli ha dato la notorietà vira qualsiasi forma di punteggiatura e quella standardizzazione di concetti ha influito notevolmente nella lingua letteraria contemporanea. Il fatto, invece, è un altro. Il vocabolario ha un suo compito specifico che instrada verso una direzione ben definita. Il linguaggio è ben altra cosa. Non si può imporre allo scrittore, pensate al poeta contemporaneo, di impostarsi secondo i canoni del vocabolario della lingua. Sarebbe un omicidio ma sarebbe anche un suicidio della stessa lingua. 

Bisognerebbe una buona volta convincersi che la tradizione del dibattito delle lingue, sviluppatosi intorno al De Vulgari e anche prima, non interessa e non tocca la comunicazione della letteratura dei nostri giorni e tanto meno i “lucchetti” parlanti dei nostri figli e delle piccole macchine parlanti che usiamo tutti per comunicare. E se Dante non interessa, è storia e deve restare tale, non interessa neppure il rapporto linguistico tra Manzoni sino a Carducci e a un certo Pascoli. 

Dobbiamo convincerci che la lingua italiana è completamente mutata rispetto agli anni Cinquanta del ‘900. E’ mutata rispetto agli anni  ’70 – ’90. Chi si ricorderà la lingua usata nei volantini delle Brigate Rosse negli anni Settanta si renderà conto la tipologia sintattica (non parlo delle minacce o dei codici terroristici ma della grammatica o di altre scorrettezze morfologiche) che si innervava nella nostra società. In che termini linguistici, mi sono spesso chiesto, comunicavano le Brigate Rosse con l’attento e forbito Aldo Moro? 

I cambiamenti delle società trasformano anche la lingua. I cantautori degli anni Sessanta capirono questa trasformazione e a loro si deve molto nell’aver mantenuto fede ad un codice sostanzialmente in linea con la tradizione. La cinematografia è andata su un altro versante. Bisogna affrontare tale questione e credo che una scuola dentro i mutamenti delle società dovrebbe avere un ruolo predominante. Ma molte volte dipende dai docenti e soprattutto dai testi adottati. Un altro problema dolente. 

Le antologie scolastiche a moduli prima e a spaziatura articolata dopo sono completamente non convincenti perché svianti. Sono costruiti in modo che non possono essere compresi senza l’interpretazione attenta del docente. Che senso hanno avuto i percorsi modulari in una antologia letteraria?

Io non ho neppure intenzione di affrontarlo questo discorso perché son ostile a questa interpretazione che permette soltanto una cosa: la distruzione dei parametri letterari dello scrittore e l’incomprensione vera di uno scrittore o di un poeta. È come se lo scrittore avesse scritto per essere inserito in un modulo. 

Ma dai, fa ridere questo sistema ed è anche doloroso sia per lo scrittore che per la storia della letteratura che adotta un’impalcatura di altro genere. Anche qui è questione di lingua. Lo scrittore e il poeta non pensano mai di essere strumento della critica, lo si vuole capire o no, e tanto meno pensano se un domani verranno collocati in un determinato blocco. 

Pensate agli orrori commessi su Cesare Pavese. Ancora è un modulo neorealista, se lo si fa entrare in un modulo, quando egli stesso ha scritto di non essere realista o neo, e di non essere considerato tale. 

Insomma, ci troviamo di fronte ad una ristrutturazione sia della lingua e attraverso la lingua ad una ristrutturazione della letteratura. Si avrà il coraggio, la forza, la consapevolezza, la preparazione di mettere in discussione un apparato del genere? 

Noi cercheremo di fare la nostra parte. Chiediamo alla scuola di fare la sua parte. Ai docenti di non attraversare le antologie, ma di leggere gli scrittori e i poeti direttamente e agli antologizzanti di rivedere le loro posizioni di ogni genere o di ogni struttura. 

Gli scrittori oggi, comunque, hanno un compito fondamentale che non è quello di strapazzare la lingua. Se Dante resta ancora fondamentale è chiaro che quella tradizione che parte con la Vita nova è da riconsiderare tra Poliziano, Leopardi, Ungaretti e Pavese. Bisogna abitarla una lingua con l’anima, come una confessione (Zambrano), come un destino, come si abita il viaggio. Solo così diventa un bene immateriale della Umanità e occorre trasmetterla, ovvero  difenderla con la fedeltà della tradizione.

 

 



* Pierfranco Bruni – Responsabile Progetto Lingue – Etnie del Mibact





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